La prossima settimana inizierò un corso online con una scuola di cinema (Sentieri selvaggi, qui il link), nel quale affronterò lo studio delle tecniche di sottotitolaggio con software differenti. Sono molto curiosa riguardo all’argomento e di certo non mancherò di sfornare un articolo su questo blog per ognuno dei cinque appuntamenti del percorso. Ma prima di iniziare ad approcciare l’argomento, ho ben pensato di documentarmi.

Bene, direi che i mestieri legati alla traduzione e adattamento dei materiali audiovisuali sono ben variati, per questo ho deciso di fare un po’ di chiarezza sulla questione.

Varie tipologie di traduzione audiovisiva

Prima di tutto, di cosa si tratta? Il concetto nasce negli anni ’70 da una definizione più ampia derivata dal concetto di “media translation”. E’ un argomento molto ampio con diverse branche: traduzione sceneggiature, traduzione e adattamento dialoghi, con sottotitoli o in doppiaggio, doppiaggio che a sua volta può essere non sincrono (ritmico labiale e ritmico non labiale) ma in voice-over (oversound, come in genere in documentari che portano testimonianze, ma anche docufiction, realities…ed è relativamente recente); ci sono, inoltre, i sottotitoli con descrizioni aggiuntive per ipoudenti, che non necessariamente sono in traduzione, ma a seconda del pubblico di fruitori possono anche essere nella stessa lingua nella quale il prodotto audiovisuale è stato girato.
L’audiodescrizione, invece, è quella che si fa per programmi televisivi e film per agevolare la fruizione da parte di ipovedenti.

Adesso focus sui sottotitoli: piccolo compendio della storia dei sottotitoli

A questo proposito ho trovato molto interessante il piccolo e-book sull’argomento offerto dalla European School of Translation ed elaborato da Valeria Cervetti, traduttrice ed adattatrice dialoghista. Leggendolo mi sono accorta che la storia delle parole impresse su “pellicola” o comunque video inizia con il principio stesso della storia del cinema, e non arriva dopo come normalmente si pensa: infatti le sequenze dei film muti sono intervallate da “legende” esplicative. Ovviamente tutti ne siamo al corrente, però non ci eravamo mai soffermati a pensarlo!

In linguaggio tecnico, essi si chiamano “intertitoli intralinguistici”, ma potevano prendere la forma di “intertitoli interlinguistici” quando il film veniva esportato in un Paese dalle usanze differenti (è inevitabile pensare alla fruizione dei primi “muti” giapponesi giunti anche in Occidente) per spiegare meglio il senso delle azioni dei protagonisti, che a causa della differenza culturale potevano essere di difficile comprensione.

Con l’avvento del cinema sonoro inizia anche il doppiaggio, che però non ha mai avuto la stessa fortuna nei vari paesi. Infatti, dipendendo da vari fattori tra cui, imprescindibile, la conoscenza e predisposizione verso l’inglese e le lingue straniere ed il peso della lingua nazionale in base al numero dei parlanti, il doppiaggio è stato e continua ad essere pratica comune solo in Spagna, Italia e, in parte, Francia (soffermandoci sul nostro continente). Ecco che nasce la dicotomia ancora non superata tra dubbing countries e subtitling countries.

Al di là di questa differenza e al di là dell’innegabile bravura di alcune scuole di doppiaggio (come la italiana, che spesso fa scordare che si tratti di materiali girati non in lingua originale), si fa sempre più strada l’idea, tra cinefili/linguisti e non, che per godere a pieno di un certo prodotto audiovisuale, a maggior ragione se un film d’autore, si debba fare ricorso solo alla visione con sottotitoli. Diciamo che si tratta di scuole di pensiero differenti, ed ognuna delle due “tecniche”, così differenti non solo come approccio ma anche come concetto, ha i suoi lati positivi e negativi.